Dal Canto parla a 40 ragazzi della Colombo ad un anno dal suo insediamento: “Quel giorno mi ha cambiato la vita”

PONTE SAN NICOLO’ Tanti auguri, mister Dal Canto. No, non abbiamo sbagliato di una settimana, visto che ricorre proprio oggi il primo anniversario di “matrimonio” tra il tecnico e il Padova. Dal Canto fu chiamato alla guida dei biancoscudati un uggioso martedì di marzo, era il 15, all’indomani della sconfitta di Cittadella e dell’esonero di Calori. Il resto è storia notissima e l’ultima pagina, la più insolita ma allo stesso tempo suggestiva, è stata scritta martedì sera nella chiesa parrocchiale di Ponte San Nicolò, dove l’allenatore di Castelfranco Veneto ha raccontato se stesso nel primo incontro dal titolo “Diventiamo grandi”, promosso dalla società sportiva locale “Colombo” per i propri ragazzi del settore giovanile, in collaborazione con il Csi e la Diocesi padovana. Fotografie, autografi, strette di mano, le immancabili domane «Ce la faremo?», «Chi giocherà domenica?». Trovare il tempo per tutti non è facile, ma possibile, soprattutto in un contesto non abituale. In piena Quaresima lo sport è entrato in chiesa, dalla porta principale, grazie al primo degli incontri formativi del ciclo “Diventiamo grandi” organizzati dal comitato locale del Csi, dall’ufficio diocesano per lo sport, dalla parrocchia e dall’Asd Colombo, la polisportiva che promuove lo sport nel territorio. L’incontro si è tenuto proprio nella chiesa parrocchiale.
Ad accogliere Dal Canto c’erano Marco Illotti, presidente provinciale del Csi, il parroco don Francesco Malaman e il sindaco di Ponte San Nicolò, Enrico Rinuncini, ma soprattutto tanti ragazzi del Colombo, che non hanno voluto perdere l’occasione di vedere da vicino il coach del Padova.
La formazione. Sono presenti una quarantina di ragazzini delle formazioni pulcini ed esordienti (oltre ad amici, genitori o semplici curiosi), eccitatissimi nel trovarsi faccia a faccia con il mister, al punto che un bambino, un po’ intimidito, gli si avvicina chiedendogli sottovoce: «Ci può dire la formazione di venerdì?». Dal Canto scoppia in una risata: «La vuoi sapere prima tu dei giocatori!». Poi prende la parola sullo sgabello sistemato davanti all’altare e inizia a… confessarsi. Dodici mesi fa. Parte proprio da quel 15 marzo 2011. «Sì, quel giorno mi ha quasi cambiato la vita, perché anche nelle più rosea delle previsioni non avrei mai pensato di avere così presto un’opportunità del genere. Per il resto sono un ragazzo normalissimo, mi viene appunto di non vestire in giacca e cravatta o di avere i capelli lunghi, ma cerco di essere me stesso». La sua infanzia? «Sono andato via di casa presto. A 13 anni, dopo aver fatto le giovanili al Giorgione e al Montebelluna, mi sono trasferito a Torino per giocare con la Juve. Un’esperienza che mi ha fatto crescere in fretta, poi è venuto tutto di conseguenza. Crescere a 500 chilometri da casa, senza avere vicino la mia famiglia, mi ha certamente formato in fretta, ma mi è anche pesato. Il sacrificio più grande è stato proprio quello di essere lontano dai miei nell’adolescenza. Essere un professionista di alto livello nel calcio vuol dire vivere un mondo distante dalla “normalità. Non sono, però, un buon esempio. Sono stato un mezzo somaro, non sono diplomato perché ho perso l’ultimo anno, visto che la sera preferivo giocare a carte. Oggi lo considero un errore grave ed è giusto che i genitori battano molto sull’educazione dei figli». Troppi interessi. C’è una persona che ha lasciato il segno nella sua infanzia? «Un allenatore a Montebelluna, Rinaldo Cavasin, un tecnico vecchio stampo. Veniva a casa mia a tempo perso a dirmi di non mangiare cose fritte, di non bere bevande gassate e di ascoltare i genitori. Sono cose che ti rimangono dentro e che forse oggi non si fanno più». Il calcio trasmette valori? «Dovrebbe, ma poi non succede. Nel professionismo è tutto troppo dipendente dagli interessi economici e si passa sopra a tante cose. I valori bisogna trasmetterli ai ragazzi e infatti il lavoro degli allenatori del settore giovanile è più difficile del mio. Perché si diventa educatori e credo che, se mi avessero dato una categoria inferiore alla Primavera, all’inizio sarei andato in difficoltà». Essere trasparenti. Che dote si riconosce Dal Canto? «La trasparenza. Viviamo in un mondo ovattato, dove certa gente vorrebbe sentirsi dire delle cose anche se non sono quelle corrette, ma io non ragiono così. Credo di aver instaurato un rapporto schietto con i miei giocatori». E il segreto del suo successo? «Quello che più mi ha aiutato è il grande feeling che ho con i ragazzi. Mi trovo a gestire giocatori che hanno anche la mia età, il margine d’errore è piccolo e a volte i miei sbagli sono stati mascherati dal risultato o dalla felice intuizione di un giocatore. A me piace, comunque, avere responsabilità, mi sento più vivo». I sensi del calcio e della vita. A proposito, in stile Paolo Bonolis, Barbara Pavin, segretaria Csi, rivolge le ultime due domande al tecnico. Il suo senso del calcio? «E’ la mia passione, quello che ho sempre voluto fare, ho provato sensazioni uniche e difficili da descrivere e sono contento di avervi dedicato la mia vita e spero che ancora per un bel po’ sia così». Il suo senso della vita? «Mi piace vivere da me stesso, esprimere me stesso e che gli altri vedano quello che sono in realtà e non tante maschere diverse». Dal Canto ha ammesso di non essere un “pesce nell’acquario”: «Non porto giacca e cravatta, ho i capelli lunghi, ma io cerco sempre di essere me stesso. Anche ai giocatori cerco di trasmettere questo, credo che sia una qualità e un atteggiamento che alla fine possano risultare vincenti».
Fonte | Stefano Volpe per Il Mattino di Padova | Il Gazzettino