Italiano a Repubblica: “Vittima di un’ingiustizia, non può finire così!”

REPUBBLICA: Vincenzo Italiano, ex capitano del Padova, 11 campionati nel Verona tra A e B, 1 nel Genoa, 3 nel Chievo e 3 appunto nel Padova, lei è stato condannato a 3 anni di squalifica dalla giustizia sportiva per illecito ed è in attesa della sentenza del Tnas il 13 settembre, ma intanto ha deciso di denunciare pubblicamente con forza il metodo dei processi sportivi: perché?
“Perché mi sento vittima di un’inaccettabile ingiustizia: io non ho fatto proprio nulla. Non posso e non voglio arrendermi a un errore così grave, che getta fango su di me senza alcuna prova, né alle pesanti discriminazioni che vedo in queste ore”.

Quali discriminazioni?
“Io ho avuto la sensazione che chiunque appartenesse al primo filone d’inchiesta, quello dei “pesci piccoli”, sarebbe stato destinato alla condanna a prescindere. Noi imputati di serie B ci siamo sentiti appunto di serie B, discriminati. Ma non dovremmo essere tutti uguali davanti alla legge?”.

Pensa che Bonucci e Pepe siano stati prosciolti perché giocano nella Juve?
“Non dico assolutamente questo: se non sono stati condannati, è perché evidentemente le accuse nei loro confronti non erano provate. Io dico un’altra cosa. Dico che le loro vicende sono state controllate a fondo, con grande attenzione. Perché, invece, la mia non è stata analizzata in profondità? Per quale motivo io sono stato condannato soltanto per sentito dire? L’avvocato di Bonucci ha giustamente argomentato che, per condannare un tesserato, servono le prove dei contatti con chi manipolava le partite, il passaggio dei soldi, le testimonianze solide. Contro di me non c’è nulla di tutto questo. Anzi, c’è chi mi scagiona. Solo che in tutti gli altri casi viene ritenuto credibile: nel mio, chissà perché, no. Così io sono stato condannato e adesso, a 35 anni, rischio di dovere lasciare il calcio con il marchio dell’infamia e senza la possibilità di difendermi davvero. Non ci sto”.

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A lei viene addebitato, in base alle dichiarazioni del pentito Carobbio, all’epoca giocatore del Grosseto, il tentativo di corrompere l’altro calciatore del Grosseto Turati, suo amico ed ex compagno nel Verona, per combinare Padova-Grosseto del 23 marzo 2010, poi finita 1-0 per il Padova. Perché, secondo lei, l’accusa non starebbe in piedi?
“Per tantissime ragioni. La prima è che Turati – le cui dichiarazioni al procuratore Palazzi su questa storia coincidono perfettamente con le mie, anche se non ci siamo mai sentiti – smentisce Carobbio. La mia telefonata con Turati la mattina della partita c’è stata: ci conosciamo da più di dieci anni, e io gli ho chiesto informazioni tecnico-tattiche sulla sua squadra, che lui oltretutto non mi ha dato. Abbiamo riso e scherzato, come sempre, tutto qui: nulla più di questo. E questa telefonata sarebbe un illecito sportivo?”.

La seconda ragione della sua protesta?
“A Carobbio viene attribuita un’attendibilità assoluta, come se fosse infallibile. Ma in quattro interrogatori davanti alla magistratura ordinaria non ha mai parlato di Padova-Grosseto. Strano, no? Lo ha fatto, poi, davanti alla giustizia sportiva, dove parlare di un presunto illecito in più significa ottenere sconti. Infatti la sua condanna è stata di 20 mesi e la mia di 3 anni, anche se non ho fatto niente. Mi sembra un incubo. E poi c’è un’altra incongruenza”.

Quale?
“Lo ha scritto nella mia difesa l’avvocato Grassani: Turati, una volta arrestato, ha ammesso di essere a conoscenza di nove tentativi di illecito. Allora perché, in una condizione che presumo terribile come quella del carcere, avrebbe dovuto omettere il decimo, quello presunto di Padova-Grosseto? Invece ha continuato a scagionarmi”.

Forse perché è suo amico?
“Non scherziamo. La realtà è che la giustizia sportiva ritiene credibile Turati quando accusa qualcuno, ma non quando scagiona qualcun altro. E sa qual è la motivazione? Che io avrei mentito a Palazzi, dicendo che il Padova, prima della partita col Grosseto, non aveva problemi di classifica, mentre in realtà era terz’ultimo. Ma a distanza di due anni credo che sia possibile non ricordarsi quale fosse la classifica esatta della propria squadra a tredici giornate dalla fine del campionato. Se avessi avuto qualcosa da nascondere, non avrei mai sbagliato su un dato così facile da controllare. La buona fede di una persona diventa una colpa: pazzesco. Quando è arrivato il deferimento, non ci volevo credere. Per non parlare di quando, al processo sportivo, ho visto un assembramento attorno al procuratore”.

A che cosa allude?
“Ho chiesto al mio avvocato che cosa stesse succedendo e lui mi ha riposto che erano i miei colleghi che stavano chiedendo il patteggiamento. Io non sono mai stato nemmeno sfiorato dall’idea di patteggiare. Significa ammettere una colpa. Ma io, quale colpa avrei dovuto ammettere, se non ho fatto nulla? Il risultato sono questi tre anni. Non escludo che ci sia chi ha patteggiato per scegliere il male minore, anche se magari sapeva di non avere fatto nulla”.

Da Pesoli, che si è incatenato davanti alla Figc, a lei, che contesta i metodi del processo, sta montando la rivolta dei condannati del calcioscommesse: non è un modo eclatante per non rispettare le sentenze?
“Premesso che il primo impulso era stato quello di unirmi a Pesoli, io posso parlare soltanto per me stesso. So di essere vittima di un’ingiustizia. E ho la sensazione che si sia fatta di tutta l’erba un fascio, travolgendo anche qualche innocente”.

Quello di Palazzi sul calcioscommesse non è certo un teorema: le partite truccate esistono, i calciatori rei confessi anche.
“Guardi che a me per primo, come sportivo, questa storia ha fatto male. All’inizio pensavo che fosse una montatura giornalistica, poi ho capito che purtroppo era tutto vero: alcuni miei colleghi hanno fatto entrare la malavita in un mondo stupendo come quello dello sport. Perciò sono l’ultimo a permettermi di contestare l’inchiesta, che è importante e ha grandi meriti. Ha appurato l’esistenza del gruppo degli zingari, i contatti tra gruppi di calciatori di varie squadre a inizio settimana per alterare i risultati delle partite, le scommesse, il giro di denaro. Ci sono prove inoppugnabili, colleghi pescati con le mani nella marmellata. Ma come la mettiamo con chi, come me, non c’entra niente?”.

La giustizia sportiva le offre l’opportunità di un ulteriore grado di giudizio, il Tnas.
“E’ a questo che penso ininterrottamente: al 13 settembre. Io per fortuna non ho subito la gogna: il Padova mi è rimasto sempre vicino, anche se non sono più tesserato, e la gente che ho incontrato, non solo nei due mesi in Sicilia durante i quali ho cercato di estraniarmi da tutto con la mia famiglia, mi ha fatto sentire che crede alla mia innocenza. Ora ho un solo obiettivo: essere riabilitato e tornare sul campo al più presto. Se avessi fatto qualcosa, mi metterei il cuore in pace. Ma non può finire così”.

Fonte | Enrico Currò per La Repubblica